Governo italiano e società privata portati in tribunale per aver riportato migranti in Libia

Migranti in fuga dalla Libia in una foto d'archivio AP del 2 gennaio 2021
Migranti in fuga dalla Libia in una foto d'archivio AP del 2 gennaio 2021 Diritti d'autore Joan Mateu/Copyright 2020 The Associated Press. All rights reserved.
Di Lillo Montalto Monella
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Delle persone sono state riportate in Libia a bordo di una nave italiana, con coordinamento effettuato da militari italiani, e questo viola diverse norme italiane e internazionale. Asgi e Amnesty portano in giudizio l'Italia e un privato.

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Per la prima volta in Italia è stata lanciata un'azione legale non solo contro il governo, ma anche contro un'azienda privata, accusata di aver aiutato lo Stato italiano ad effettuare un respingimento di migranti in Libia - un Paese che non può essere in alcun modo considerato sicuro.

Cinque cittadini eritrei, con il sostegno delle associazioni ASGI e Amnesty International Italia, hanno avviato un'azione civile per chiedere i danni all'Italia e alla società Augusta Offshore. Quest'ultima è proprietaria di una nave che, nel luglio 2018, ha aiutato la cosiddetta guardia costiera libica a riportare a Tripoli dei migranti intercettati in mare.

Impedire a delle persone di chiedere asilo, lo ricordiamo, è illegale: viola diverse convenzioni internazionali, il diritto del mare ma anche la stessa Costituzione italiana. Riportarle in un Paese in cui rischiano la vita è altrettanto illegale.

Data la loro nazionalità (eritrea), quei migranti avrebbero avuto diritto alla protezione internazionale e all'asilo. L'Eritrea è infatti considerato uno dei regimi più repressivi al mondo da Human Rights Watch.

I fatti

Gli avvocati che assistono i cittadini eritrei (uno di essi è un bambino, nato pochi giorni dopo il respingimento, avvenuto il 2 luglio 2018) chiamano in giudizio non solo lo Stato italiano, ma anche l'armatore della barca e il suo capitano. Lo fanno sulla base di una catena di responsabilità ricostruita dopo mesi di indagini.

Nel tentativo di fuggire dalla Libia, paese in cui avevano sofferto gravi abusi e violazioni, il 30 giugno 2018 cinque eritrei si imbarcano su un gommone assieme ad altre 150 persone. Dopo due giorni passati in mare, in avaria e ad un passo dal naufragio, i migranti vengono raccolti dalla motovedetta libica Zwara. A bordo però ci sono altri naufraghi, e la presenza di così tante persone - unita alle condizoni del mare notevolmente peggiorate - porta in breve tempo la motovedetta a lanciare un allarme. La stabilità è compromessa, serve un intervento urgente.

Secondo quanto ricostruito dai legali, entra in gioco a questo punto la Marina italiana.

La nave Caprera, di stanza a Tripoli, inviaistruzioni ad una nave privata, la Asso Ventinove, della flotta della società privata Augusta Offshore, chiedendole di raggiungere la motovedetta libica.

L’imbarcazione privata è in quel momento sulla rotta che da Tripoli la conduce alla piattaforma petrolifera Bouri Field, tra le più grandi del Mediterraneo. Il comandante della Asso Ventinove risponde positivamente all'appello, cambia rotta e segue le indicazioni ricevute dalla Caprera.

Sul posto è presente anche il pattugliatore Duilio, sempre della marina italiana.

Arrivata sul posto, come indica l'avvocato di Asgi, Giulia Crescini, la Asso Ventinove si affianca alla motovedetta libica e fa salire tutte le oltre 200 persone a bordo.

L'operazione si conclude in piena notte: vengono tutti portati a Tripoli dalla Asso Ventinove, che trascina con un cavo rimorchio la motovedetta libica.

"Delle persone sono state riportate in Libia a bordo di una nave italiana, con coordinamento effettuato da militari italiani", sottolinea Crescini. "Una volta sbarcati, tutti i respinti sono finiti nei centri di detenzione. Inclusa una donna incinta di otto mesi, che partorirà pochi mesi dopo. Il personale OIM [Organizzazione internazionale delle migrazioni, n.d.R.] non ha risposto alle nostre richieste di informazioni, e l'altra agenzia Onu, UNHCR, qualche giorno dopo intervisterà i cinque cittadini eritrei - da considerarsi rifugiati -, raccoglierà le loro storie ma non farà mai alcuna segnalazione".

I migranti riescono alla fine a raggiungere l'Europa tramite un programma di ricollocamento dal Niger, tramite corridoi umanitari oppure su un altro barcone giunto a Malta, come nel caso di uno di loro.

Cosa succede ora

Durante una conferenza stampa, l'avvocato Luca Saltalamacchia, del collegio difensivo, ha detto che da questa vicenda "emerge chiaramente che la catena di comando risale alle autorità italiane, che però dal canto loro hanno sempre scaricato le responsabilità all'Augusta Offshore".

"Stavolta però portiamo in giudizio non solo l'Italia, ma anche l'armatore della nave privata e il suo capitano. Si tratta di una strategic litigation, una novità assoluta nel panorama italiano. La domanda principale riguarda il risarcimento dei danni ma, per arrivare alla pronuncia, il giudice dovrà accertare se i diritti dei ricorrenti sono stati violati".

Non solo: gli avvocati faranno anche una domanda inibitoria per cercare di ottenere dal giudice un divieto di reiterare questo tipo di condotta da parte dello Stato Italiano e dell'Augusta Offshore. "In passato si sono macchiati di episodi simili, e hanno la tendenza a ripetersi", aggiunge Saltalamacchia.

Crescini ritiene che si potrebbe arrivare a sentenza in un paio d'anni.

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Lo stratagemma italiano per evitare i tribunali europei

Nel 2012, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha già condannato l’Italia per i respingimenti collettivi dei migranti verso la Libia avvenuti in una famosa sentenza, nota come Hirsi Jamaa dal nome del ricorrente.

Da allora, sottolineano gli avvocati di Asgi e Amnesty, l'Italia ha cercato di aggirare l'illegalità dei suoi comportamenti con "lo stratagemma del memorandum di intesa, firmato da Minniti: la nuova strategia diventa quella di bloccare le persone nei carceri libici" onde evitare il ripetersi di situazioni di ricerca e soccorso in mare.

Il fatto che l'Italia abbia successivamente ricosciuto lo status di rifugiato ai cinque eritrei "rende ancora più grave quel respingimento", aggiungono, proprio perché quelle persone godevano di un diritto che è stato loro impedito di esercitare.

Erasmo Palazzotto, Parlamentare LeU che sostiene l'iniziativa, ha affermato nel corso della stessa conferenza stampa che "il nuovo governo dovrà affrontare il tema del rifinanziamento delle missioni militari in Libia".

"Questo caso è molto importante per ristabilire un piano di legalità, e per ristabilire dei principi che non devono più essere rimessi in discussione. É utile ribadire nelle aule dei tribunali che l'Italia e l'Europa devono sottrarsi alle co-responsabilità degli Stati che violano i diritti delle persone coinvolte. Altrimenti c'è il rischio che, poco alla volta, si modifichi il diritto, e col tempo diventi legittimo fare ciò che non è legale", dice Palazzotto.

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Di recente, i legali Asgi hanno vinto un'importante battaglia in tribunale che ha permesso di riconoscere come illegittimi i respingimenti effettuati dalla polizia di frontiera al confine orientale, verso la Slovenia. Un Tribunale di Roma ha riconosciuto infatti il diritto a fare ingresso in Italia a chi ha subito una riammissione a catena verso la Bosnia (passando dalla Croazia), sulla base di un accordo bilaterale con la Slovenia siglato nel 1996 ma che non può applicarsi a chi non viene messo in condizione di presentare domanda di asilo.

Come svelato di recente dal giornalista Nello Scavo, sono le stesse autorità italiane a definire la situazione in Libia "grave" in una conversazione radio ottenuta da Avvenire. Un'affermazione che va nella direzione opposta a chi ha sempre sostenuto che, in presenza della cosiddetta guardia costiera libica, non vi sia ragione per sottrarre i migranti al rischio di venire deportati nei campi di prigionia libici.

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