I discorsi al Senato vengono trascritti con una macchina molto antica

La Michela è utilizzata dall'Ottocento: è ancora competitiva, ma richiede tanta formazione e ora ci sono alternative più moderne

(Mauro Scrobogna/LaPresse)
(Mauro Scrobogna/LaPresse)
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«Desidero che l’utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera», scrisse Giuseppe Garibaldi nel 1877 da Caprera, l’isola sarda in cui passò l’ultima parte della sua vita. Il riferimento era a un nuovo strumento stenografico, cioè un macchinario per trascrivere velocemente e in tempo reale, attraverso un sistema di tasti associati a segni particolari, quello che veniva detto a voce. Lo aveva inventato pochi anni prima Antonio Michela Zucco, e oltre a quello di Garibaldi aveva suscitato l’entusiasmo di molti altri. Anche il senatore Giovanni Battista Giorgini, genero di Alessandro Manzoni, apprezzò la macchina: «Credo di essere innanzi ad una delle più grandi invenzioni del secolo», disse.

Nel 1878 Michela ne registrò il brevetto in Italia e la presentò all’Esposizione universale di Parigi. I giurati gli diedero la medaglia d’argento e non quella d’oro perché Michela si rifiutò di divulgare il funzionamento della macchina. In ogni caso, grazie a questo risultato, venne ricevuto dal re Vittorio Emanuele II a Monza e insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Nel 1879 il Consiglio municipale di Torino adottò la Michela, come era già nota allora la macchina, per i resoconti delle sedute. Dopo pochi mesi fece lo stesso la Corte d’Assise di Napoli e nel 1881 il Senato, che la utilizza ancora oggi.

Nel frattempo sono passati decenni di regno dei Savoia, vent’anni di dittatura fascista, due guerre mondiali, il passaggio dalla monarchia alla repubblica e 68 governi. Ma la Michela è rimasta nell’aula del Senato, sostanzialmente senza stravolgimenti nell’essenza dello strumento. Da qualche anno però l’Ufficio resoconti del Senato sta pensando a un eventuale futuro senza, per varie ragioni, tra cui i costi di formazione degli stenografi e delle stenografe, che peraltro sono sempre meno.

Antonio Michela Zucco per gran parte della sua vita fece l’insegnante nel Canavese, in Piemonte, tra Aglié, Quassolo, Vestigné, Borgofranco e Ivrea. Era un appassionato di fisica, matematica e disegno tecnico, materia che insegnò a lungo. Tra le sue molteplici passioni c’era anche la fonetica, e in particolare avrebbe voluto creare una specie di alfabeto universale partendo dai suoni sillabici che usiamo parlando. Così tentò di classificarli tutti, associando a ciascuno un segno grafico.

Dato che si interessava anche di musica, Michela passò all’applicazione pratica della sua idea prendendo spunto dal pianoforte. La macchina stenografica che costruì aveva, e ha tutt’oggi, venti tasti del tutto simili a quelli del pianoforte, divisi in due semitastiere da usare con entrambe le mani. La prima volta che lo presentò a Milano, nel 1863, definì questo sistema stenografico «a processo sillabico istantaneo». Di fatto Michela aveva inventato la stenotipìa, cioè la stenografia eseguita a macchina.

In sintesi la stenografia è un metodo di scrittura che serve a trascrivere il parlato più rapidamente di quanto non si faccia utilizzando lettere e parole, che nei sistemi stenografici vengono sostituite da simboli o segni. Capire come funziona non è semplice, ma essenzialmente la classificazione di Michela divide tutte le sillabe in quattro gruppi principali:

1) suono iniziale precedente la vocale;
2) eventuale suono intermedio successivo a quello iniziale e precedente il suono vocalico principale;
3) suono vocalico principale (vocale tonica);
4) suono finale successivo alla vocale tonica.

Questi quattro gruppi sono trasposti nelle due semitastiere, i cui tasti sono chiamati con lettere dell’alfabeto che servono solamente a identificarli e a trascrivere i fonemi, cioè i singoli elementi sonori della lingua, attraverso varie combinazioni.

Per fare giusto qualche esempio, con il tasto “Z” si può trascrivere sia la G dolce, quella di “gelato”, che quella dura, di “galera”. Nel primo caso bisogna pigiare la combinazione Z-P, nel secondo la combinazione F-Z-P. La È si trascrive con la combinazione di tasti u-a, e così via per tutti i fonemi. Con ogni dito si premono specifici tasti: il mignolo sinistro F e S, l’anulare sinistro C e Z, e così via. Le combinazioni ovviamente sono numerose e per padroneggiarle tutte ci vogliono moltissime ore di addestramento.

Un esempio delle combinazioni di tasti da utilizzare per la trascrizione di alcune frasi (Senato)

Dagli anni Novanta la Michela può essere collegata ai computer, che “traducono” simultaneamente il resoconto dello stenografo o della stenografa. «Il redattore non utilizza più i tasti per imprimere dei segni fonografici su una striscia di carta, come avveniva con la macchina iniziale» racconta Massimo Martinelli, direttore del’Ufficio resoconti del Senato. «Ma per scrivere direttamente al computer. Sulla base di questo verbatim [la trascrizione testuale, ndr] messo insieme dal computer realizza poi il resoconto, aggiungendo la punteggiatura, le maiuscole, le citazioni».

Il testo trascritto a tastiera viene insomma sistemato in un secondo momento dagli stenografi stessi, che tra le cose aggiungono anche la cosiddetta “fisionomia”, cioè la descrizione di quello che succede in aula: le pause, le interruzioni, gli applausi.

I turni degli stenografi si compongono di cinque minuti alle tastiere della Michela e circa cinquanta a rivedere al computer il verbatim. Di questi turni ne vengono fatti molti, innanzitutto perché di tutte le sedute dell’aula e di alcune commissioni parlamentari deve esserci necessariamente un resoconto, e poi perché gli stenografi sono meno di quanti servirebbero. Attualmente sono ventitré, meno della metà della cosiddetta pianta organica, cioè il numero totale di stenografi previsto dal Senato. Il motivo della scarsità di stenografi è che molti sono andati in pensione e non sono stati sostituiti.

Tradizionalmente per arrivare a fare questo lavoro si attraversavano due passaggi: prima un concorso per essere ammessi a un corso di formazione, poi un nuovo concorso per essere assunti (ma non tutti gli ammessi al corso poi venivano assunti). Le persone ammesse al corso, comunque, non avevano una formazione pregressa in ambito stenografico, dovevano affrontare semplici prove di cultura generale e attitudinali, e venivano valutate anche attraverso i titoli di studio. L’ultimo concorso bandito risale al 2005, e non si sa se e quando ne verranno fatti altri.

Il punto è che ci vogliono anni per formare nuovi stenografi, e non c’è la certezza che per quando saranno pronti la Michela sarà ancora lì. Per esempio alla Camera dei deputati, l’altro ramo del parlamento, non vengono usate macchine stenografiche, ma un sistema di riconoscimento vocale automatico gestito da una ditta esterna, sperimentato per la prima volta nel 2013. Per il momento la Michela continua a cavarsela egregiamente (in passato gli stenografi del Senato hanno spesso dominato nei campionati internazionali di stenografia), ma le cose in futuro potrebbero cambiare.

«C’è una riflessione in corso da anni, siamo in un periodo di transizione» dice Martinelli. «In qualche modo bisognerà prendere una decisione in merito. La Michela è ancora oggi estremamente competitiva, anche rispetto ai sistemi di riconoscimento vocale, ma è anche vero che la tecnologia va avanti, e magari oggi i risultati non sono paragonabili, ma un giorno lo potrebbero diventare». Inoltre i nuovi sistemi hanno pochi costi, legati alla manutenzione e all’appalto, mentre la Michela «richiede molto più impegno di formazione, infinitamente più grande».