Eguaglianza

Enciclopedia del Novecento (1977)

Eguaglianza

Norberto Bobbio

di Norberto Bobbio

Eguaglianza

sommario: 1. Eguaglianza e libertà. 2. Eguaglianza e giustizia. 3. Le situazioni di giustizia. 4. I criteri di giustizia. 5. La regola di giustizia. 6. L'eguaglianza di tutti. 7. L'eguaglianza di fronte alla legge. 8. L'eguaglianza giuridica. 9. L'eguaglianza delle opportunità. 10. L'eguaglianza di fatto. 11. L'egualitarismo. 12. L'egualitarismo e il suo fondamento. 13. Egualitarismo e liberalismo. 14. L'ideale dell'eguaglianza. □ Bibliografia.

1. Eguaglianza e libertà

L'eguaglianza, come valore supremo di una convivenza ordinata, felice e civile, e quindi, da un lato come aspirazione perenne degli uomini viventi in società e dall'altro come tema costante delle ideologie e delle teorie politiche, viene accoppiata spesso con la libertà. Come ‛libertà' ‛eguaglianza' ha prevalentemente nel linguaggio politico un significato emotivo positivo, cioè designa qualche cosa che si desidera, anche se non mancano ideologie e dottrine autoritarie che pregiano più l'autorità che la libertà, e ideologie e dottrine inegualitarie che pregiano più la diseguaglianza che l'eguaglianza. Ma, per quel che riguarda il loro significato descrittivo, mentre rispetto al termine ‛libertà' la difficoltà di stabilirlo sta soprattutto nella sua ambiguità, essendo che nel linguaggio politico di ‛libertà' si parla almeno in due significati diversi, la difficoltà di stabilire il significato descrittivo di ‛eguaglianza' sta soprattutto nella sua indeterminazione, cosicché il dire che due enti sono eguali senz'altra determinazione non significa nel linguaggio politico nulla, se non si specifica di quali enti si tratti e rispetto a che cosa siano eguali, cioè se non si sia in grado di rispondere alle due domande: a) ‛eguaglianza tra chi?', e b) ‛eguaglianza in che cosa?'

Più precisamente, mentre la libertà è una qualità o proprietà della persona (non importa se fisica o morale), e quindi i suoi diversi significati dipendono dal fatto che questa qualità o proprietà può essere riferita a diversi aspetti della persona, prevalentemente alla volontà o all'azione, l'eguaglianza è puramente e semplicemente un tipo di relazione formale, che può essere riempita dei più diversi contenuti. Tanto è vero che mentre ‛X è libero' è una proposizione dotata di senso, ‛X è eguale' è una proposizione senza senso, e anzi rinvia, per acquistare un senso, alla risposta alla domanda ‛eguale a chi?'. Donde l'effetto irresistibilmente comico e, nell'intenzione dell'autore, satirico, del celebre motto orwelliano ‟Tutti sono eguali ma alcuni sono più eguali degli altri", mentre sarebbe perfettamente legittimo dire che in una società tutti sono liberi ma alcuni sono più liberi, perché vorrebbe dire semplicemente che tutti godono di certe libertà e un gruppo più ristretto di privilegiati gode inoltre di alcune libertà speciali.

D'altra parte, mentre è senza senso la proposizione ‛X è eguale', è una proposizione sensata, anzi usatissima, ancorché estremamente generica ‛tutti gli uomini sono eguali', proprio perché in tale contesto l'attributo dell'eguaglianza si riferisce non a una qualità dell'uomo in quanto tale, com'è o può essere in certi contesti la libertà, ma a un certo tipo di rapporto tra gli enti che fanno parte della categoria astratta ‛umanità'. Il che può anche spiegare perché la libertà in quanto valore, cioè in quanto bene o fine da perseguire, sia di solito considerata un bene o un fine per un individuo o per un ente collettivo (gruppo, classe, nazione, Stato) concepito come un super-individuo, mentre l'eguaglianza è considerata come un bene o un fine per i singoli componenti di una totalità in quanto questi enti si trovino in un determinato tipo di rapporto tra loro. Prova ne sia che mentre la libertà è in genere un valore per l'uomo in quanto individuo, donde le teorie politiche fautrici della libertà, cioè liberali o libertarie, sono dottrine individualistiche, tendenti a vedere nella società piuttosto un aggregato d'individui che non una totalità, l'eguaglianza è un valore per l'uomo in quanto ente generico, cioè in quanto è un ente appartenente a una determinata classe, che è appunto l'umanità, donde le teorie politiche propugnatrici di eguaglianza, o egualitarie, tendono a vedere nella società una totalità di cui occorre considerare quale tipo di rapporti esista o debba essere istituito tra le diverse parti del tutto. A differenza del concetto e del valore della libertà, il concetto e il valore dell'eguaglianza presuppongono per la loro applicazione la presenza di una pluralità di enti di cui si tratta di stabilire quale rapporto esista tra loro: mentre si può dire al limite che possa esistere una società in cui uno solo è libero (il despota), non avrebbe senso asserire che esiste una società in cui uno solo è eguale. L'unico nesso socialmente e politicamente rilevante tra libertà ed eguaglianza si riscontra là dove la libertà viene considerata come ciò in cui gli uomini, o meglio i membri di un determinato gruppo sociale, sono o debbono essere eguali, donde la caratteristica dei membri di questo gruppo di essere ‛egualmente liberi' o ‛eguali nella libertà': nessuna mighor riprova del fatto che la libertà è la qualità di un ente, l'eguaglianza un modo di stabilire un determinato tipo di rapporto tra gli enti di una totalità, anche se poi l'unica caratteristica comune di questi enti è il fatto di essere liberi.

2. Eguaglianza e giustizia

Mentre ‛libertà' e ‛eguaglianza' sono termini concettualmente e assiologicamente molto diversi, anche se spesso ideologicamente congiunti, il concetto e anche il valore dell'eguaglianza mal si distinguono dal concetto e dal valore della giustizia nella maggior parte delle sue accezioni, tanto che l'espressione ‛libertà e giustizia' viene usata spesso come equivalente all'espressione ‛libertà ed eguaglianza'.

Dei due significati classici di giustizia risalenti ad Aristotele, l'uno è quello che identifica ‛giustizia' con ‛legalità', onde si dice giusta l'azione compiuta in conformità delle leggi (non importa se siano leggi positive o naturali), giusto l'uomo che osserva abitualmente le leggi, e giuste le stesse leggi (per esempio le leggi umane) in quanto corrispondano a leggi superiori, come le leggi naturali o divine; l'altro è quello che identifica ‛giustizia' per l'appunto con ‛eguaglianza', onde si dice giusta un'azione, giusto un uomo, giusta una legge che istituisce o rispetta, una volta che è istituito, un rapporto di eguaglianza. L'opinione comune che ritiene di poter distinguere i due significati di giustizia riferendo il primo prevalentemente ad azione e il secondo prevalentemente a legge, onde un'azione è giusta in quanto è conforme a una legge e una legge è giusta in quanto è conforme al principio di eguaglianza, non è esatta: tanto nel linguaggio comune quanto in quello tecnico, si suole dire, senza che quest'uso susciti la minima confusione, che un uomo è giusto tanto perché è osservante della legge quanto perché è equanime, come, d'altra parte, che una legge è giusta tanto perché è egualitaria quanto perché è conforme a una legge superiore. Non è difficile del resto ricondurre uno dei due significati all'altro: il punto di riferimento comune a entrambi è quello di ordine, o di equilibrio, o di armonia, o di concordia delle parti di un tutto. Sin dalle più antiche rappresentazioni della giustizia, questa è sempre stata raffigurata come la virtù o il principio che presiede all'ordinamento in un tutto armonico o equilibrato tanto delle società umane quanto del cosmo (l'ordine del cosmo, del resto, è concepito, nella concezione sociomorfica dell'universo, come una proiezione dell'ordine sociale): ora, affinché regni l'armonia nell'universo o nella civitas sono necessarie due cose, che ognuna delle parti abbia assegnato il proprio posto secondo ciò che le spetta, il che è l'applicazione del principio suum cuique tribuere, massima espressione della giustizia come eguaglianza; e che, una volta che a ogni parte è stato assegnato il proprio posto, l'equilibrio raggiunto sia mantenuto da norme universalmente rispettate. Così l'instaurazione di una certa eguaglianza tra le parti e il rispetto della legalità sono le due condizioni per l'istituzione e la conservazione dell'ordine o dell'armonia del tutto che è per chi si metta dal punto di vista della totalità, e non delle parti, il sommo bene. Queste due condizioni sono entrambe necessarie per attuare la giustizia, ma soltanto insieme sono anche sufficienti. In una totalità ordinata l'ingiustizia può essere introdotta sia dall'alterazione dei rapporti di eguaglianza sia dall'inosservanza delle leggi: l'alterazione dell'eguaglianza è una sfida alla legalità costituita così come l'inosservanza delle leggi stabilite è una rottura del principio di eguaglianza cui la legge si è ispirata. A ogni modo l'eguaglianza consiste soltanto in un rapporto: ciò che dà a questo rapporto un valore, cioè ne fa un fine umanamente desiderabile, è l'essere giusto. In altre parole, un rapporto di eguaglianza è un fine desiderabile nella misura in cui è considerato giusto, ove con ‛giusto' s'intenda che tale rapporto ha in qualche modo a che vedere con un ordine da istituire o da restituire (una volta turbato), con un ideale di armonia delle parti di un tutto, perché, tra l'altro, solo un tutto ordinato ha la possibilità di sussistere in quanto tale.

Appare quindi ancora una volta chiaro che la libertà è il valore supremo dell'individuo rispetto al tutto, la giustizia è il bene supremo del tutto in quanto composto di parti, o in altre parole, la libertà è il bene individuale per eccellenza e la giustizia è il bene sociale per eccellenza (in questo senso virtù sociale, come diceva Aristotele). Volendo coniugare i due valori supremi del vivere civile, l'espressione più corretta è ‛libertà e giustizia' anziché ‛libertà ed eguaglianza', dal momento che l'eguaglianza non è di per se stessa un valore ma è tale soltanto nella misura in cui sia una condizione necessaria se pur non sufficiente di quell'armonia del tutto, di quell'ordine delle parti, di quell'equilibrio interno di un sistema in cui consiste la giustizia.

3. Le situazioni di giustizia

Che due cose siano eguali tra loro non è né giusto né ingiusto, cioè non ha di per se stesso né socialmente né politicamente alcun valore. Mentre la giustizia è un ideale, l'eguaglianza è un fatto. Non è di per se stesso né giusto né ingiusto che due palle di biliardo siano perfettamente eguali tra loro. La sfera di applicazione della giustizia, ovvero dell'eguaglianza socialmente e politicamente rilevante, è quella dei rapporti sociali, o degli individui o gruppi tra loro, o degli individui col gruppo (e viceversa), secondo la distinzione tradizionale risalente ad Aristotele tra giustizia commutativa (che ha luogo nei rapporti tra le parti) e giustizia distributiva (che ha luogo nei rapporti tra il tutto e le parti o viceversa). Più specificamente, le situazioni in cui è rilevante che vi sia o non vi sia eguaglianza sono soprattutto due: a) quella in cui ci si trova di fronte a un'azione di dare (o fare), di cui si debba stabilire la corrispondenza antecedentemente con un avere o susseguentemente con un ricevere, onde la sequenza avere-dare-ricevere-avere; b) quella in cui ci si trova di fronte al problema di assegnare vantaggi o svantaggi, benefici o oneri, in termini giuridici diritti o doveri, a una pluralità di individui appartenenti a una determinata categoria. Nel primo caso la situazione è caratterizzata da un rapporto bilaterale e reciproco; nel secondo caso, da un rapporto multilaterale e unidirezionale. Nel primo caso il problema dell'eguaglianza si presenta come problema di ‛equivalenza' di cose (ciò che si dà deve essere equivalente a ciò che si ha, ciò che si riceve a ciò che si ha); nel secondo, come problema di ‛equiparazione' di persone (si tratta per esempio di equiparare nel rapporto tra coniugi la moglie al marito o nel rapporto di lavoro gli operai agli impiegati). Ognun vede la differenza tra l'eguaglianza che viene invocata quando si richiede che vi sia corrispondenza tra la merce e il prezzo e l'eguaglianza che viene invocata quando si chiede che i diritti (e i doveri) della moglie corrispondano a quelli del marito, oppure che lo stato giuridico degli operai sia equiparato a quello degli impiegati. Le due situazioni del resto corrispondono ai due tipi fondamentali di rapporti che è dato riscontrare in ogni sistema sociale, i rapporti di scambio e i rapporti di convivenza. Volendo dare un nome alle due situazioni di giustizia si può parlare nel primo caso di giustizia retributiva, nel secondo di giustizia attributiva.

Mentre non è possibile specificare ulteriormente i casi tipici di giustizia attributiva, tante e tanto imprevedibili sono le situazioni in cui si richiede un eguagliamento nei rapporti tra individui, i casi più tipici di giustizia retributiva, cioè di eguaglianza tra ciò che si dà (o si fa) e ciò che si riceve, sono i quattro seguenti: rapporto tra merce e prezzo, rapporto tra mercede e lavoro, rapporto tra danno e indennizzo, rapporto tra delitto e castigo. Di questi quattro casi i primi due sono di retribuzione di un bene con un bene, gli altri due, di un male con un male. Anche in questi casi il linguaggio comune riconosce il nesso tra i due concetti di giustizia e di eguaglianza, parlando rispettivamente di ‛giusto prezzo', di ‛giusto salario', di ‛giusto indennizzo', di ‛giusta pena'.

4. I criteri di giustizia

Una volta delimitata la sfera di applicazione della giustizia come eguaglianza, non si è detto ancora nulla su ciò che distingue un'eguaglianza giusta da una ingiusta, che è poi la differenza essenziale in un discorso politico tra l'eguaglianza desiderabile e quella che non è tale. Non si è detto ancora nulla intorno a ciò che rende desiderabile che due cose o due persone siano eguali. A questo punto il problema dell'eguaglianza rinvia al problema dei cosiddetti criteri di giustizia, cioè a quei criteri che permettono di stabilire situazione per situazione in che cosa due cose o due persone debbano essere eguali affinché l'eguaglianza tra di loro possa essere considerata giusta. Due cose o due persone possono essere eguali o eguagliate sotto molti aspetti: la loro eguaglianza o il loro eguagliamento ha a che fare con la giustizia solo quando corrisponde a un determinato criterio (che viene chiamato criterio di giustizia), in base al quale si stabilisce quale degli aspetti debba essere considerato rilevante al fine di distinguere un'eguaglianza desiderabile da un'eguaglianza non desiderabile. Che il malum passionis sia eguale al malum actionis non è di per se stesso né giusto né ingiusto: diventa giusto se si elegge a criterio di giustizia penale il criterio dell'egual sofferenza, cioè se si accetta il principio che delitto e castigo debbano essere eguali nella sofferenza (rispettivamente procurata e subita). Se si adotta un altro criterio, per esempio quello che ispira la legge del taglione, secondo cui il castigo deve eguagliare il delitto non nella sofferenza, ma più rozzamente e materialmente nel tipo di mutilazione, l'eguagliamento del castigo al delitto avviene in modo diverso. Ancora più evidente è il caso del rapporto di eguaglianza tra lavoro e mercede: vi sono tanti modi di considerare la mercede corrispondente al lavoro, e quindi di ritener rispettato il rapporto di eguaglianza tra l'una e l'altro, quanti sono i criteri di retribuzione che vengono di volta in volta adottati, secondo le necessità, le ideologie e infiniti altri fattori. Che il salario debba corrispondere alla necessità della riproduzione della forza-lavoro, è un criterio retributivo che viene perfettamente soddisfatto quando sia rispettata l'eguaglianza fra l'ammontare di ciò che riceve l'operaio in cambio del suo lavoro e ciò che egli deve spendere per il suo sostentamento. Cambiando criterio, quel che era giusto col primo criterio diventa ingiusto col secondo.

Non vi è teoria della giustizia che non analizzi e discuta alcuni dei più comuni criteri di giustizia, che di solito vengono presentati come specificazioni della massima generalissima e vuota: ‛a ciascuno il suo'. Per fare qualche esempio: ‛a ciascuno secondo il merito', ‛secondo la capacità', ‛secondo il talento', ‛secondo lo sforzo', ‛secondo il lavoro', ‛secondo il risultato', ‛secondo il bisogno', ‛secondo il rango', e via enumerando. Nessuno di questi criteri ha valore assoluto né è perfettamente obiettivo, anche se vi siano situazioni in cui venga applicato prevalentemente l'uno piuttosto dell'altro: nella società familiare il criterio prevalente è quello del bisogno (e curiosamente anche nella società comunistica secondo Marx), nella scuola (quando abbia finalità essenzialmente selettive) il criterio del merito; in una società per azioni quello delle quote di proprietà; nella società leonina quello della forza (la comunità internazionale è in gran parte una società leonina), eccetera. Anche se la scelta di questo o quel criterio è in parte determinata dalla situazione obiettiva, dipende spesso, e talora in ultima istanza, sebbene non sempre consapevolmente, dalla concezione generale dell'ordine sociale, come dimostrano a sufficienza le dispute ideologiche se sia più giusta la società in cui a ciascuno sia dato secondo il merito o quella in cui a ciascuno sia dato secondo il bisogno. Nelle situazioni concrete i vari criteri sono spesso contemperati l'uno con l'altro: si pensi alla varietà di criteri con cui vengono selezionati di solito i concorrenti a concorsi di pubblico impiego, ove si mescolano, si sovrappongono e si confondono il criterio del merito con quello del bisogno, il criterio dell'anzianità con quello del rango. La massima ‛a ciascuno il suo' non enuncia alcun criterio, ma li comprende di volta in volta e tollera tutti.

5. La regola di giustizia

Al di là delle due forme di giustizia retributiva e attributiva, esaminate nei capitoli precedenti, l'eguaglianza ha a che fare con la giustizia anche in un altro senso, cioè rispetto alla cosiddetta ‛regola di giustizia'. Per ‛regola di giustizia' s'intende la regola secondo cui si debbono trattare gli eguali in modo eguale e i diseguali in modo diseguale. Superfluo sottolineare quale sia l'importanza che assume una regola siffatta nei riguardi della determinazione della giustizia, concepita come il valore che presiede alla conservazione dell'ordine sociale. Ciò che invece conviene sottolineare è che alla regola di giustizia non si riduce sino ad esaurirsi, come in genere ritengono i giuristi, il problema della giustizia come valore sociale. La regola della giustizia infatti presuppone che siano già risolti i problemi che rientrano nella sfera della giustizia retributiva e della giustizia attributiva, presuppone cioè che siano già stati scelti i criteri per stabilire quando due cose debbono essere considerate equivalenti e quando due persone debbono essere considerate equiparabili. Solo dopo che questi criteri sono stati scelti, interviene la regola di giustizia a stabilire che vengano trattati nello stesso modo coloro che si trovano nella stessa situazione. Se non fosse stabilito in anticipo come debba essere trattata questa o quella categoria, non avrebbe senso alcuno affermare che gli appartenenti alla categoria debbono essere trattati in modo eguale. Chi confonde il problema o meglio i vari problemi della giustizia come eguaglianza con la regola di giustizia non sembra rendersi conto che il primo compito di colui che opera per la giustizia è quello relativo al modo di trattare un determinato soggetto in un determinato rapporto, e che soltanto dopo avere stabilito il trattamento sorge l'esigenza di stabilire che l'egual trattamento venga riservato a coloro che si trovano nella stessa situazione. La regola di giustizia insomma riguarda il modo con cui il principio di giustizia dev'essere applicato: è stata chiamata infatti correttamente la giustizia nell'applicazione (s'intende nell'applicazione del principio di giustizia accolto ovvero, poiché questo o quel principio di giustizia costituiscono generalmente il contenuto di leggi, nell'applicazione della legge). Da questo punto di vista il rapporto tra la giustizia retributiva e attributiva e la regola di giustizia può essere precisato in questo modo: la prima è costitutiva o ricostitutiva dell'eguaglianza sociale; la seconda tende a mantenerla nei modi e nelle forme in cui è stata stabilita. Poiché la regola di giustizia non dice quale sia il trattamento migliore ma si limita a richiedere l'applicazione eguale di un determinato trattamento qualunque esso sia, viene chiamata anche giustizia formale, in quanto prescinde completamente da qualsiasi considerazione del contenuto. Si può dare il caso, e si dà infatti frequentemente in ogni ordinamento giuridico ove le norme invecchiano e diventano ingiuste, che una norma ingiusta venga applicata giustamente, e non è certo l'applicazione ingiusta che vi pone rimedio ma se mai soltanto la disapplicazione.

Pur avendo un valore subordinato al valore instaurato dalla giustizia retributiva e attributiva, anche la giustizia formale ha di per se stessa, cioè indipendentemente dal valore di giustizia della norma, e pur nel caso di norma ingiusta, un valore sociale, che è quello di garantire l'ordine vecchio sino a che non sarà sostituito dal nuovo. Ha anche la funzione di rendere meno urtante l'ingiustizia in quanto condivisa (‛mal comune mezzo gaudio'). Si può ancora osservare che lo strumento più idoneo a far rispettare la regola di giustizia è l'emanazione, da parte di colui che detiene in una determinata società il potere legislativo, di norme generali e astratte che stabiliscano come debba essere trattata un'intera categoria di soggetti. Qualora vi siano norme siffatte, e la maggior parte delle leggi formali sono tali, il rispetto della regola di giustizia, cioè della giustizia formale, si risolve puramente e semplicemente nell'applicazione scrupolosa e imparziale della legge: applicando infatti una legge scrupolosamente e imparzialmente a tutti i soggetti che rientrano nella categoria dalla legge regolata e secondo il trattamento previsto, si osserva anche la regola della giustizia che vuole siano trattati in modo eguale gli eguali. Da questo punto di vista l'applicazione della regola di giustizia è la stessa cosa del rispetto della legalità, anche se non bisogna confondere l'attuazione della regola di giustizia attraverso il rispetto della legalità, da un lato, con la giustizia come legalità, cui abbiamo accennato nel cap. 2, e, dall'altro, col principio di legalità il quale è posto a difesa non dell'eguaglianza ma della certezza del diritto. La regola di giustizia richiede per la sua applicazione la virtù dell'imparzialità nei riguardi dei destinatari della legge, il principio di legalità piuttosto quella della lealtà nei riguardi del legislatore.

6. L'eguaglianza di tutti

Contrariamente a quello che si potrebbe desumere da ciò che si è detto sin qui sul rapporto tra giustizia ed eguaglianza in cui ‛giustizia' è sempre apparso come termine assiologicamente significante ed ‛eguaglianza' come termine assiologicamente neutrale, oltre che descrittivamente indeterminato, nel dibattito politico l'eguaglianza costituisce un valore, anzi uno dei valori fondamentali cui le filosofie e le ideologie politiche di tutti i tempi si sono ispirate. Ma ciò dipende dal fatto che in tutti i contesti in cui l'eguaglianza viene invocata (e naturalmente anche in quelli in cui viene condannata), l'eguaglianza di cui si tratta è sempre un'eguaglianza determinata o secundum quid, che riceve il suo contenuto assiologicamente rilevante proprio da quel quid che ne specifica il significato.

Certamente, una delle massime politiche più cariche di significato emotivo è quella che proclama l'eguaglianza di tutti gli uomini, la cui formulazione più corrente è la seguente: ‛Tutti gli uomini sono (o nascono) eguali'. Questa massima corre e ricorre entro l'ampio arco di tutto il pensiero politico occidentale, dagli stoici al cristianesimo primitivo, per rinascere con nuovo vigore durante la Riforma, assumere forma filosofica in Rousseau e nei socialisti utopisti, ed essere espressa in forma di vera e propria regola giuridica nelle dichiarazioni dei diritti dalla fine del Settecento a oggi. Ma di solito non si pone mente al fatto che ciò che attribuisce una carica emotiva positiva all'enunciazione, che in quanto proposizione descrittiva o è troppo generica o addirittura falsa, non è la proclamata eguaglianza ma l'estensione dell'eguaglianza a ‛tutti'. Non può sfuggire infatti il significato polemico e rivoluzionario di questo ‛tutti', che viene contrapposto a situazioni o ordinamenti in cui non tutti, anzi pochi o pochissimi, fruiscono di beni e diritti, di cui gli altri sono privi. In altre parole, il valore della massima sta non nel fatto che evochi il fantasma dell'eguaglianza, che ha sempre rotto il sonno dei potenti, ma nel fatto che l'eguaglianza evocata, di qualsivoglia natura essa sia, dovrebbe valere per tutti, dove per ‛tutti' non è detto s'intenda la totalità degli uomini, perché basta s'intenda la totalità degli appartenenti a un determinato gruppo sociale, purché questo gruppo sia più esteso di quello che ha detenuto sinora il potere. Inoltre, poiché, come si è detto, una qualsiasi massima di giustizia deve rispondere a entrambe le domande dell'‛eguaglianza fra chi' e dell'‛eguaglianza in che cosa' per avere un contenuto specifico, va osservato che la massima dell'eguaglianza di tutti risponderebbe apparentemente solo alla prima domanda se la s'interpretasse letteralmente. In realtà il significato assiologico della massima dipende anche dalla qualità, sebbene sottintesa, rispetto alla quale si chiede che gli uomini, tutti gli uomini, siano considerati eguali. In nessuna delle accezioni storicamente importanti la massima può essere interpretata come richiedente che ‛tutti' gli uomini siano eguali in ‛tutto'.

L'idea che la massima esprime è che gli uomini siano considerati eguali e trattati da eguali rispetto a quelle qualità che secondo le diverse concezioni dell'uomo e della società costituiscono l'essenza dell'uomo, la natura umana distinta dalla natura degli altri esseri, come il libero uso della ragione, la capacità giuridica, la libertà di possedere, la ‛dignità sociale' (come recita l'art. 3 della Costituzione italiana), o, più brevemente, la ‛dignità' (come recita l'art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo) e via discorrendo. In questo senso la massima non ha un significato univoco ma ha tanti significati quante sono le risposte alla domanda: ‛tutti eguali, sì, ma in che cosa?'. Una volta interpretato il suo significato specifico attraverso l'analisi delle idee morali, sociali e politiche della dottrina che l'ha formulata, il suo significato emotivo dipende proprio dal valore che ogni dottrina attribuisce a quella qualità rispetto a cui si esige che gli uomini siano trattati in modo eguale. Anche il campione dell'egualitarismo, J.-J. Rousseau, non chiede che affinché sia instaurato il regno dell'eguaglianza tutti gli uomini siano eguali in tutto: all'inizio del Discorso sull'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini distingue le diseguaglianze naturali da quelle sociali, quelle prodotte dalla natura e in quanto tali benefiche, o per lo meno moralmente indifferenti, e quelle sociali prodotte da quel groviglio di rapporti di dominio economico, spirituale e politico, di cui è intessuta la civiltà umana. Ciò cui egli mira è l'eliminazione delle seconde, non delle prime. In uno dei passi decisivi del Contratto sociale scrive: ‟Invece di distruggere l'eguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce al contrario un'eguaglianza morale e legittima a quanto la natura aveva potuto mettere d'ineguaglianza fisica tra gli uomini" (I, 9).

7. L'eguaglianza di fronte alla legge

Delle varie determinazioni storiche della massima proclamante l'eguaglianza di tutti gli uomini, l'unica universalmente accolta, quale che sia il tipo di costituzione in cui è inserita e quale che sia l'ideologia che vi è sottintesa, è quella che afferma che ‛tutti gli uomini sono eguali di fronte alla legge', o, con altra formulazione, ‛la legge è eguale per tutti'. Il principio è antichissimo e non può non essere ricollegato, anche se il collegamento è infrequente, al concetto classico dell'‛isonomia', che è concetto fondamentale, oltre che ideale primario, del pensiero politico greco, come risulta a meraviglia illustrato da queste parole di Euripide: ‟Nulla v'è per una città più nemico d'un tiranno, quando non vi sono anzitutto leggi generali, e un uomo solo ha il potere, facendo la legge egli stesso a se stesso; e non v'è affatto eguaglianza. Quando invece ci sono leggi scritte, il povero e il ricco hanno eguali diritti" (Supplici, 429-434). Modernamente il principio si trova enunciato nelle Costituzioni francesi del 1791, del 1793 e del 1795; poi via via nell'art. 1 della Carta del 1814, nell'art. 6 della Costituzione belga del 1830, nell'art. 24 dello Statuto albertino. Mentre il XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (1868) vuole assicurare a ogni cittadino ‟l'eguale protezione delle leggi", il principio viene ripreso e ripetuto, nel primo dopoguerra, tanto dall'art. 109, comma 1, della Costituzione di Weimar (1919), quanto dall'art. 7, comma 1, della Costituzione austriaca (1920); nel secondo dopoguerra, per fare esempi tratti da costituzioni ispirate a diverse ideologie, tanto dall'art. 71 della Costituzione bulgara (1947) quanto dall'art. 3 della Costituzione italiana (1948).

Nonostante la sua universalità, anche questo principio è tutt'altro che chiaro e ha dato luogo a diverse interpretazioni. Prescindo in questa sede dalla disputa, che interessa più propriamente la teoria giuridica, circa l'efficacia del principio: se cioè esso sia rivolto ai giudici o anche al legislatore. Nel primo caso non aggiungerebbe nulla alla regola di giustizia che prescrive l'imparzialità nel giudizio; nel secondo caso finisce per cambiare completamente natura, perché da principio che prescrive l'eguaglianza ‛di fronte' alla legge si trasformerebbe in un principio del tutto diverso e ben più pregnante che prescrive l'eguaglianza ‛nella' legge. Il principio ha prima di tutto un significato storico. Ma per intenderne il significato storico, bisogna ricollegarlo non tanto a quello che afferma quanto a quello che nega, bisogna cioè intenderne il valore polemico.

Il bersaglio principale dell'affermazione che tutti sono eguali di fronte alla legge è lo Stato di ordini o di ceti, quello Stato in cui i cittadini sono divisi in categorie giuridiche diverse e distinte, disposte in ordine gerarchico rigido, onde le superiori hanno privilegi che le inferiori non hanno, e queste hanno al contrario oneri da cui quelle sono esenti: il passaggio dallo Stato per ordini allo Stato liberale borghese risulta chiaro a chi consideri la differenza tra il Codice prussiano del 1794 che contempla tre ordini in cui è divisa la società civile, i contadini, i borghesi e la nobiltà, e il Codice napoleonico del 1804, dove vi sono soltanto cittadini. Nel Preambolo della Costituzione francese del 1791 si legge che i costituenti hanno voluto abolire ‟irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà e l'eguaglianza dei diritti", e tra queste istituzioni sono annoverate tutte quelle che avevano caratterizzato il regime feudale. La frase con cui il Preambolo si chiude, ‟Non vi sono più per alcuna parte della nazione, né per alcun individuo, alcun privilegio o eccezione al diritto comune di tutti i Francesi", illustra a contrario, meglio di qualsiasi commento, il significato del principio dell'eguaglianza di fronte alla legge. Ovunque all'enunciazione del principio seguano una o più specificazioni del contenuto, il valore polemico risulta evidente. Nell'art. 24 dello Statuto albertino all'enunciazione del principio segue questa precisazione: ‟Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle Leggi". Nulla di più storicamente condizionato che l'ammissibilità alle cariche civili e militari (perché no, all'istruzione e ai diritti politici?): ciò contro cui questa prescrizione reagisce è la discriminazione in base alla nascita (il principio aristocratico), e non contro altre forme di discriminazione.

Se si prescinde da questo significato polemico, espresso o tacito, che occorre di volta in volta rilevare, il principio dell'eguaglianza di fronte alla legge è anch'esso, come tutte le formule egualitarie, estremamente generico. La communis opinio infatti lo interpreta come prescrivente l'esclusione di ogni discriminazione arbitraria sia da parte del giudice sia da parte del legislatore, ove per ‛discriminazione arbitraria' s'intenda una discriminazione introdotta o non eliminata senza una giustificazione, più brevemente una discriminazione non giustificata (e in questo senso ‛ingiusta'). Ma basta addurre ragioni perché una discriminazione possa considerarsi giustificata? Qualsiasi ragione o non piuttosto certe ragioni piuttosto che certe altre? Ma in base a quali criteri si distinguono le ragioni valide da quelle invalide? Esistono criteri oggettivi, criteri cioè che riposino sulla cosiddetta ‛natura delle cose'? L'unica risposta che si possa dare a queste domande è che vi sono, tra gli individui umani, differenze rilevanti e differenze irrilevanti rispetto al loro inserimento in questa o quella categoria. Ma questa distinzione non coincide con la distinzione tra differenze obiettive e non obiettive: tra Bianchi e Negri, tra uomini e donne vi sono certo differenze obiettive, ma non è detto che siano anche rilevanti. La rilevanza o l'irrilevanza è stabilita in base a scelte di valore e quindi in quanto tale è storicamente condizionata. Basta considerare le giustificazioni che sono state addotte di volta in volta per i successivi allargamenti dei diritti politici, per rendersi conto che una differenza ritenuta rilevante in un determinato periodo storico (per escludere certe categorie di persone dai diritti politici) non è più stata considerata rilevante in un periodo successivo.

8. L'eguaglianza giuridica

Occorre ulteriormente distinguere l'eguaglianza di fronte alla legge dall'eguaglianza di diritto, dall'eguaglianza nei diritti (o dei diritti, secondo le diverse formulazioni), e dall'eguaglianza giuridica. L'espressione ‛eguaglianza di diritto' viene usata in contrapposizione a ‛eguaglianza di fatto', e corrisponde quasi sempre alla contrapposizione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale o materiale, su cui si veda oltre (v. sotto, cap. 10). L'eguaglianza nei diritti (o dei diritti) significa qualcosa di ben di più che la mera eguaglianza di fronte alla legge come esclusione da ogni discriminazione non giustificata: significa l'eguale godimento da parte dei cittadini di alcuni diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, come risulta da alcune celebri formulazioni: ‟Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti" (Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, 1789), ‟Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" (Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, 1948). La differenza tra eguaglianza di fronte alla legge ed eguaglianza nei diritti è sottolineata in alcune formulazioni, come quella dell'art. 21 della Costituzione iugoslava in cui si dice che gli uomini sono eguali ‟dinanzi alla legge e nei diritti". Mentre l'eguaglianza di fronte alla legge è soltanto una forma specifica e storicamente determinata di eguaglianza di diritto o dei diritti (per es. nel diritto di tutti di accedere alla giurisdizione comune, o alle principali cariche civili e militari, indipendentemente dalla nascita), l'eguaglianza nei diritti comprende, oltre il diritto di essere considerati eguali di fronte alla legge, tutti i diritti fondamentali enumerati in una costituzione, quali sono i diritti civili e politici, generalmente proclamati (il che non vuol dire riconosciuti di fatto) in tutte le costituzioni moderne. Infine, per eguaglianza giuridica s'intende di solito l'eguaglianza in quel particolare attributo che fa di ogni membro di un gruppo sociale, anche dell'infante, un soggetto giuridico, cioè un soggetto dotato di capacità giuridica. Mentre l'eguaglianza nei diritti ha un ambito più vasto dell'eguaglianza di fronte alla legge, l'eguaglianza giuridica ha un ambito più ristretto: il bersaglio polemico del principio dell'eguaglianza di fronte alla legge è originariamente, come si è detto, la società di ceti, mentre il bersaglio polemico dell'eguaglianza giuridica è la società schiavistica, cioè quella società in cui non tutti i suoi membri sono perso- ne giuridiche. In una società di ceti tutti sono soggetti di diritto, hanno capacità giuridica, anche se non tutti sono eguali di fronte alla legge (nel senso che ogni ordine è regolato da leggi diverse), e a maggior ragione non tutti sono eguali nei diritti fondamentali.

9. L'eguaglianza delle opportunità

Discorso non molto diverso è da farsi rispetto all'altro principio di eguaglianza che viene considerato uno dei cardini dello Stato di democrazia sociale, così come il principio dell'eguaglianza di fronte alla legge ha rappresentato uno dei cardini dello Stato liberale: il principio dell'eguaglianza delle opportunità, o delle chances, o dei punti di partenza. Anche questo principio non è meno generico del precedente, qualora non ne venga precisato il contenuto con riferimento a situazioni specifiche e storicamente determinate. Di per se stesso il principio dell'eguaglianza delle opportunità astrattamente considerato non è nulla di particolarmente nuovo: esso non è altro che l'applicazione della regola di giustizia a una situazione in cui vi siano più persone in competizione tra loro per il raggiungimento di un obiettivo unico, cioè di un obiettivo che non può essere raggiunto che da uno dei concorrenti (come il successo in una gara, la vittoria in un gioco o in un duello, la vincita di un concorso e così via). Non vi è nulla di particolarmente progressivo o regressivo nel fatto che i giocatori di scopa o di tarocchi abbiano in partenza lo stesso numero di carte o i giocatori di scacchi lo stesso numero e lo stesso tipo di pedine, che i duellanti siano forniti della stessa arma, i corridori partano dalla stessa linea, o i partecipanti a un concorso abbiano lo stesso titolo di studio, debbano portare all'esame gli stessi libri, siano tutti quanti messi nella condizione di non conoscere il tema che dovranno svolgere.

Ciò che ancora una volta fa di questo principio un principio innovatore negli Stati socialmente ed economicamente avanzati è il fatto che esso sia stato enormemente esteso per effetto del prevalere di una concezione conflittualistica globale della società, per cui tutta intera la vita sociale viene considerata un'immensa gara per il conseguimento di beni scarsi. Questa estensione è avvenuta almeno in due direzioni: a) nel richiedere che l'eguaglianza dei punti di partenza venga applicata a tutti i membri del gruppo sociale senza alcuna distinzione di religione, di razza, di sesso, di classe, ecc.; b) nel comprendere tra le situazioni in cui la regola deve essere applicata situazioni economicamente e socialmente ben altrimenti importanti che non siano quelle dei giochi o dei concorsi, e tali sono, per fare qualche esempio, la gara per il possesso dei beni materiali, per il raggiungimento di mete particolarmente desiderabili da tutti gli uomini, per il diritto di esercitare certe professioni. In altre parole, il principio dell'eguaglianza delle opportunità elevato a principio generale mira a mettere tutti i membri di quella determinata società nella condizione di partecipare alla gara della vita, o per la conquista di ciò che è vitalmente più significativo, partendo da posizioni eguali. Superfluo aggiungere che, quali siano da considerare le posizioni di partenza eguali, quali le condizioni sociali e materiali che permettano di considerare i concorrenti eguali, varia da società a società. Basta porsi domande di questo genere: è sufficiente il libero accesso a scuole eguali? Ma quali scuole, di quale grado, sino a quale anno di età? Poiché alla scuola si accede dalla vita familiare, non sarà necessario eguagliare le condizioni di famiglia in cui ciascuno si trova a vivere sin dalla nascita? Dove ci si ferma? Non è superfluo invece richiamare l'attenzione sul fatto che proprio allo scopo di mettere individui diseguali per nascita nelle stesse condizioni di partenza, può essere necessario favorire i più disagiati o sfavorire i più agiati, cioè introdurre artificialmente, ovvero imperativamente, discriminazioni altrimenti non esistenti, come avviene del resto in certe gare sportive in cui ai concorrenti meno provetti viene assicurato un certo vantaggio nei riguardi dei più provetti. In tal modo una diseguaglianza diventa strumento di eguaglianza per il semplice motivo che corregge una diseguaglianza precedente; cosicché la nuova eguaglianza è il risultato del pareggiamento di due diseguaglianze.

10. L'eguaglianza di fatto

Dal principio dell'eguaglianza di fronte alla legge e da quello dell'eguaglianza delle opportunità si distingue l'esigenza o l'ideale dell'eguaglianza reale o sostanziale o, come si legge nella Costituzione italiana, ‟di fatto". Che cosa s'intenda genericamente per ‛eguagiianza di fatto' è abbastanza chiaro: s'intende l'eguaglianza rispetto ai beni materiali, o eguaglianza economica, la quale si viene così a distinguere dall'eguaglianza formale o giuridica, e dall'eguaglianza delle opportunità o sociale. È tutt'altro che chiaro, invece, anzi è molto controverso, quali siano le forme e i modi specifici con cui questa eguaglianza si ritiene possa essere pretesa o attuata. Eguaglianza rispetto ai beni materiali. Ma quali beni? E perché no, anche i beni spirituali o intellettuali? Se si definiscono i beni rispetto ai bisogni che essi tendono a soddisfare, la domanda intorno alla determinazione di ciò che è un bene e di ciò che non lo è rinvia alla domanda intorno alla determinazione di quali siano i bisogni degni di essere soddisfatti e nei riguardi dei quali si considera ‛giusto' che gli uomini siano eguali. Tutti i bisogni o soltanto alcuni? E poiché non sembra si possa rispondere ‛tutti' - e neanche il più conseguente e fanatico egualitario ha mai dato una simile risposta - qual è il criterio in base al quale si possono distinguere bisogni meritevoli e bisogni immeritevoli di essere soddisfatti? Forse il criterio dell'utilità sociale, per cui si distinguono bisogni socialmente utili e bisogni socialmente nocivi? O il criterio, ancora più vago, della corrispondenza alla ‛natura', onde si distinguono bisogni naturali da bisogni artificiali, bisogni spontanei da bisogni provocati dai produttori di beni di consumo? Il bisogno di ascoltare una sinfonia di Beethoven è naturale o artificiale, spontaneo o provocato? E quello di andare in vacanza, o di portare scarpe, o di leggere il giornale? Da questo punto di vista nulla di più indeterminato della formula ‛a ciascuno secondo i suoi bisogni', usata anche da Marx, e poi diventata l'ideale-limite della società comunista, nel suo scritto Critica al programma di Gotha.

Una volta determinata la natura dei beni rispetto ai quali gli uomini dovrebbero essere eguali, il problema dell'eguaglianza non è ancora risolto: occorre anche stabilire in quali modi gli uomini entrino e rimangano in rapporto con questi beni. È necessario il possesso o è sufficiente l'uso? È sufficiente il godimento o è necessaria la disponibilità? O vi è ancora un'altra distinzione da fare, tra un tipo di beni, come gli strumenti di produzione, di cui basta l'uso eguale, e altri beni come i prodotti di cui è lecito anche il possesso individuale ed eventualmente anche la libera disposizione? In terzo luogo, non sembra che chi sostiene una dottrina egualitaria possa sfuggire a una ulteriore domanda: dopoché è stato determinato il tipo di beni di cui è rilevante l'eguaglianza affinché una società possa essere considerata giusta, dopoché è stato stabilito il tipo di rapporto che deve sussistere tra i membri del gruppo e questi beni, affinché l'eguaglianza sostanziale sia assicurata, l'eguaglianza invocata sarà assoluta o relativa? O per riprendere la nota distinzione aristotelica, aritmetica o geometrica? In altre parole, i beni da distribuire saranno distribuiti secondo la formula ‛a ciascuno in parti eguali' oppure secondo la formula ‛a ciascuno in proporzione di...', cioè con una formula che permetta una diversa distribuzione secondo il diverso grado con cui ogni individuo possiede il requisito richiesto? Nulla impedisce che venga considerata egualitaria una dottrina che difende una formula di eguaglianza proporzionale. È da notare infine che tra gli stessi principî di giustizia comunemente considerati alcuni sono più egualitari di altri: un principio è tanto più egualitario quanto minori si presume siano le differenze tra gli uomini rispetto al criterio adottato. Il principio ‛a ciascuno secondo il bisogno' è considerato fra tutti il principio più egualitario (non per nulla vi si ispira la dottrina comunistica), perché si ritiene che gli uomini siano più eguali tra loro (o meno diversi) rispetto ai bisogni che non, per esempio, rispetto alle capacità. Dal che segue che il carattere egualitario di una dottrina non sta nella richiesta che tutti siano trattati in modo eguale rispetto ai beni rilevanti, ma che il criterio in base al quale questi beni vengono distribuiti sia esso stesso massimamente egualitario. Ma vi è poi un criterio, se non oggettivo per lo meno comunemente condiviso, per distinguere i principi di giustizia in base al loro maggiore o minore egualitarismo? Ancora una domanda cui non sembra facile dare una risposta univoca. Del resto, se la determinazione di ciò che devesi intendere per eguaglianza sostanziale non sollevasse tante domande, non sarebbero state proposte lungo tutto il corso storico che ci è noto tante forme diverse di dottrine egualitarie, spesso in conflitto tra loro, e, poiché l'egualitarismo è l'aspetto più costante e caratterizzante delle dottrine comunistiche e socialistiche, non ci troveremmo di fronte a tanti diversi comunismi e socialismi, di cui alcuni totalmente, altri parzialmente, alcuni assolutamente, altri relativamente, egualitari.

11. L'egualitarismo

A ogni modo, quali che siano le differenze specifiche, ciò che caratterizza le ideologie egualitarie rispetto a tutte le altre ideologie sociali, che pur ammettono o esigono questa o quella forma particolare di eguaglianza, è la ‛richiesta dell'eguaglianza sostanziale, in quanto distinta dall'eguaglianza dinanzi alla legge e dall'eguaglianza delle opportunità. Come sarebbe ambiguo definire il liberalismo la dottrina che pregia su tutti i valori il valore della libertà, sino a che non si definisca quali sono le libertà che formano generalmente il contenuto minimo della dottrina liberale (e sono le libertà personali e civili), così sarebbe generico definire l'egualitarismo la dottrina che pregia su tutti i valori il valore dell'eguaglianza, sino a che non si determini di quale eguaglianza si tratti, e in quale misura debba venire applicata. Si è già detto che, per determinare il significato specifico di un rapporto di eguaglianza, occorre rispondere almeno a due domande: ‛eguaglianza tra chi?', ed ‛eguaglianza in che cosa?'. Limitando il criterio di specificazione alla coppia tutto-parte, le risposte possibili sono quattro: a) eguaglianza fra tutti in tutto; b) eguaglianza fra tutti in qualche cosa; c) eguaglianza fra alcuni in tutto; d) eguaglianza fra alcuni in qualche cosa. L'ideale-limite dell'egualitarismo si riconosce nella prima risposta: eguaglianza di tutti gli uomini sotto tutti gli aspetti. Ma appunto si tratta di un ideale-limite praticamente irraggiungibile. Si può tutt'al più ridefinire l'egualitarismo come la tendenza al raggiungimento di questo ideale per successive approssimazioni. Storicamente, una dottrina egualitaria è una dottrina che sostiene l'eguaglianza per il maggior numero di uomini nel maggior numero di aspetti. Dal momento che l'eguaglianza assoluta intesa come l'eguaglianza di tutti in tutto è un ideale-limite cui si può tendere con successive approssimazioni, è lecito parlare di dottrine più egualitarie di altre. Di egualitarismo parziale o limitato si può parlare invece a proposito di dottrine che sostengono l'eguaglianza in tutto limitatamente a una categoria di persone, come è la dottrina platonica nei riguardi della classe dei guerrieri, o come sono alcune regole di ordini religiosi. S'intende che l'egualitarismo parziale o limitato è peffettamente compatibile con una concezione inegualitaria dell'intera società. Le altre due possibili risposte, l'eguaglianza di tutti in qualcosa, e l'eguaglianza di alcuni (appartenenti a una determinata categoria) in qualche cosa possono dirsi richieste egualitarie solo se eliminano una diseguaglianza precedente. Così si chiama egualitaria una legge che estenda il suffragio alle donne, o un'altra che elimini una discriminazione razziale. Ma né la prima né la seconda risposta sono tipiche di una concezione egualitaria della società; isolatamente considerate, non possono dirsi risposte determinanti di nessuna forma storica di egualitarismo. La richiesta dell'eguaglianza giuridica, intesa come eguaglianza di tutti nella capacità giuridica, è certo una richiesta egualitaria rispetto alla situazione in cui gli uomini si dividevano in liberi e in schiavi; ma è il portato dell'ideologia liberale, non ancora di un'ideologia egualitaria.

Ciò che contraddistingue le ideologie egualitarie è generalmente l'accento posto sull'uomo come essere ‛generico', cioè come essere appartenente a un determinato genus, e quindi sulle caratteristiche comuni a tutti gli appartenenti al genus, piuttosto che sui caratteri individuali per cui un uomo si distingue dall'altro (che è al contrario ciò che contraddistingue le dottrine liberali), non importa poi se l'accento cada sulle caratteristiche negative dell'uomo (‛gli uomini sono tutti peccatori') oppure su quelle positive (‛l'uomo è un animale naturalmente socievole'). Di questa comune natura degli uomini si è data storicamente un'interpretazione religiosa - gli uomini sono tra loro fratelli in quanto figli dello stesso Padre - e un'interpretazione filosofica, che si fonda generalmente sulla concezione di una eguaglianza sostanziale primitiva, o ‛naturale', corrotta e pervertita dalle istituzioni sociali che hanno introdotto e perpetuato la diseguaglianza tra ricchi e poveri, tra governanti e governati, tra classe dominante e classe dominata. Spesso nella stessa dottrina egualitaria si ritrovano mescolate e rafforzantisi l'una con l'altra entrambe le interpretazioni: l'appello religioso procede di pari passo con l'argomento filosofico, l'ideale della rigenerazione con quello della rivoluzione sociale. Secondoché l'accento venga posto sulle diseguaglianze economiche o su quelle politiche, e quindi il fine ultimo dell'eguaglianza venga perseguito attraverso l'eliminazione della proprietà privata o attraverso l'eliminazione del potere politico, le dottrine egualitarie si distinguono in socialistiche (o comunistiche) e anarchiche. Le prime perseguono l'eguaglianza politica attraverso quella economica, le seconde percorrono il cammino inverso.

12. L'egualitarismo e il suo fondamento

Se è vero che storicamente il punto di partenza delle dottrine egualitarie è prevalentemente la considerazione della comune natura degli uomini, questo punto di partenza non è logicamente sufficiente a giustificare il principio fondamentale dell'egualitarismo, secondo cui tutti o quasi tutti gli uomini debbono essere trattati in modo eguale in tutti o quasi tutti gli aspetti. Pure ammesso che sia fattualmente vero che tutti gli uomini sono eguali, o per lo meno sono più eguali che diseguali, non ne discende, per la inderivabilità di una proposizione normativa da una proposizione descrittiva, che tutti gli uomini debbano essere trattati in modo eguale. Questo principio etico fondamentale deriva non già dalla pura e semplice constatazione che gli uomini sono di fatto eguali, ma dalla valutazione positiva di questo fatto, cioè dal giudizio di valore: ‛l'eguaglianza (la maggior possibile eguaglianza) tra gli uomini è desiderabile'. Prova ne sia che una dottrina inegualitaria come quella hobbesiana, che considera come scopo supremo degli uomini viventi in società non la maggior eguaglianza possibile, ma esclusivamente la pace sociale, e fonda quest'ultima proprio sulla rinuncia all'eguaglianza naturale e sulla costituzione di un ordinamento in cui viene tracciata una netta linea di demarcazione tra coloro che hanno il dovere di comandare e coloro che hanno il solo diritto di ubbidire, parte dalla constatazione che gli uomini nello stato di natura sono eguali. Ma, a differenza dei teorici dell'egualitarismo, Hobbes non dà un giudizio di valore positivo dell'eguaglianza naturale; anzi considera l'eguaglianza materiale degli uomini quale si riscontra nello stato di natura una delle cause del bellum omnium contra omnes, che rende intollerabile la permanenza in quello stato e costringe gli uomini a dar vita alla società civile. La maggior parte dei teorici dell'egualitarismo e Hobbes partono dalla stessa verità di fatto, ma arrivano a conseguenze pratiche opposte perché valutano quella stessa realtà di fatto in modo opposto; le conseguenze pratiche opposte derivano infatti non dalla constatazione ma dalla valutazione.

A rigore, la constatazione dell'eguaglianza naturale degli uomini non solo non è sufficiente a fondare l'egualitarismo ma non è neppure necessaria. Si può benissimo considerare la massima eguaglianza come un bene degno di essere perseguito senza peraltro prendere le mosse dalla constatazione di un'eguaglianza naturale o primitiva o originaria degli uomini. Il marxismo è una dottrina egualitaria, che ha ormai abbandonato completamente i presupposti naturalistici delle forme più ingenue di socialismo: la proposizione normativa ‛l'eguaglianza è un bene degno di essere perseguito' non deriva in questo caso surrettiziamente dal giudizio di fatto ‛gli uomini sono nati o sono per natura eguali', ma dal giudizio di valore ‛la diseguaglianza è un male', beninteso, quella diseguaglianza che è dato osservare nella storia concreta degli uomini, che è storia di società divise in classi antagonistiche e quindi profondamente diseguali. Se pure in una forma estremamente semplificata, il procedimento mentale che presiede alla costituzione di una teoria come questa è perfettamente l'opposto di quello hobbesiano: per Hobbes gli uomini sono di fatto eguali ma debbono essere diseguali; per i teorici del socialismo scientifico, gli uomini sono stati di fatto sinora diseguali ma debbono essere eguali. Non diversamente dalle dottrine egualitarie, le dottrine inegualitarie presuppongono non già la considerazione della fondamentale e invincibile diseguaglianza umana, ma l'apprezzamento positivo di questa o quella forma di diseguaglianza, sia essa tra individui più o meno dotati dalla natura in forza fisica o in intelligenza o in abilità, sia essa tra razze o stirpi o nazioni; presuppongono in altre parole un giudizio di valore opposto a quello delle dottrine egualitarie, ovvero il giudizio che questa o quella forma di diseguaglianza è giovevole o addirittura necessaria al migliore assetto della società o al progresso civile, e pertanto l'ordine sociale deve rispettare, non abolire le diseguaglianze tra gli uomini o almeno quelle diseguaglianze che vengono considerate socialmente e politicamente rilevanti. Dal momento che le società sinora esistite sono di fatto società di diseguali, le dottrine inegualitarie rappresentano di solito la tendenza a conservare le cose così come sono, sono dottrine conservatrici; le dottrine egualitarie al contrario rappresentano di solito la tendenza a modificare lo stato di fatto, sono dottrine riformatrici. Quando poi l'apprezzamento delle diseguaglianze giunge sino al punto da far desiderare e promuovere il ristabilimento di diseguaglianze ormai cancellate, l'inegualitarismo diventa reazionario; l'egualitarismo diventa invece rivoluzionario, quando prospetta il salto qualitativo da una società di diseguali, quale è storicamente sinora esistita, a una società futura di eguali.

13. Egualitarismo e liberalismo

Mentre egualitarismo e inegualitarismo sono totalmente antitetici, egualitarismo e liberalismo sono solo parzialmente antitetici, il che non toglie che storicamente, nella lotta politica, siano considerati generalmente dottrine antagonistiche e alternative. Mentre l'inegualitarismo nega la massima dell'egualitarismo, secondo cui ‛tutti gli uomini debbono essere (al limite) eguali in tutto', rispetto alla totalità dei soggetti, in quanto afferma che solo ‛alcuni' uomini sono eguali, o al limite ‛nessun' uomo è eguale all'altro, il liberalismo nega la stessa massima non rispetto alla totalità dei soggetti ma alla totalità (o quasi totalità) dei beni o dei mali riguardo ai quali gli uomini dovrebbero essere eguali, cioè ammette l'eguaglianza di tutti non in tutto (o quasi tutto) ma soltanto in qualche cosa, e questo ‛qualche cosa' sono di solito i cosiddetti diritti fondamentali, o naturali, o, come si dice oggi, umani, che sono poi le varie forme di libertà personale, civile e politica, che sono state enumerate via via dalle varie costituzioni degli Stati nazionali dalla fine del Settecento a oggi, sino a riapparire in documenti internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (1950). L'ideale dello Stato liberale, qual è espresso in modo paradigmatico da Kant, è l'ideale dello Stato in cui tutti i cittadini godano di un'egual libertà, cioè siano egualmente liberi, o eguali nel diritto alla libertà.

Se in questo senso si può dire che il liberalismo è una dottrina parzialmente egualitaria, bisogna subito aggiungere che essa è egualitaria più nelle intenzioni che nei risultati, dal momento che tra le libertà protette è generalmente compresa anche quella di possedere e di accumulare senza limiti beni economici a titolo individuale, e la libertà d'intraprendere operazioni economiche (la cosiddetta libertà d'iniziativa economica), da cui hanno avuto e continuano ad avere origine le più grandi diseguaglianze sociali nelle società capitalistiche più avanzate. Le dottrine egualitarie hanno del resto sempre accusato il liberalismo di essere fautore e protettore di un regime fondato sulla diseguaglianza economica: basti ricordare che per Marx l'eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, senza distinzioni di ordini, proclamata dalla Rivoluzione francese, non è stata in realtà che uno strumento di cui la classe borghese si è servita allo scopo di liberare e rendere disponibile la forza-lavoro necessaria allo sviluppo del capitalismo nascente, attraverso l'utile finzione del contratto volontario tra individui egualmente liberi. Dalla critica delle dottrine egualitarie contro la concezione e la pratica liberale dello Stato sono nate le richieste dei diritti sociali che hanno trasformato profondamente il sistema dei rapporti tra l'individuo e lo Stato e la stessa organizzazione dello Stato anche nei regimi che pur si considerano continuatori, senza bruschi capovolgimenti, della tradizione liberale del secolo scorso. D'altra parte, i liberali hanno sempre accusato gli egualitari di sacrificare la libertà individuale, che si nutre della diversità delle capacità e delle attitudini, all'uniformità e al livellamento imposti dalla necessità di rendere gli individui conviventi il più possibile simili: nella tradizione del pensiero liberale l'egualitarismo diventa sinonimo di appiattimento delle aspirazioni, di compressione forzata dei talenti, di eguagliamento improduttivo delle forze motrici della società. Liberalismo ed egualitarismo affondano le loro radici in concezioni della società profondamente diverse: individualistica, conflittualistica e pluralistica quella liberale, totalizzante, armonica e monistica quella egualitaria. Per il liberale il fine principale è l'espansione della personalità individuale, astrattamente considerata come un valore per sé stante; per l'egualitario, lo sviluppo armonico della comunità. Diversi sono i modi di concepire la natura e i compiti dello Stato: limitato e garantista lo Stato dei primi, espansionista e interventista lo Stato dei secondi.

Questa diversità non preclude peraltro la possibilità di sintesi teoriche e di tentativi di soluzioni pratiche di compromesso tra libertà ed eguaglianza, nella misura in cui questi due valori fondamentali (insieme con quello dell'ordine) di ogni convivenza civile vengano considerati non come antinomici ma come complementari. La Costituzione italiana, per citarne una fra tante, stabilisce all'art. 3, comma 2, che ‟è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese". Pur tenendo nel debito conto l'immenso divario che sussiste sempre tra simili solenni dichiarazioni e la realtà di fatto, è significativo che libertà ed eguaglianza vengano congiuntamente nominate come beni indivisibili e solidali tra loro.

14. L'ideale dell'eguaglianza

La spinta verso una sempre maggiore eguaglianza è, come aveva già osservato o paventato nel secolo scorso Tocqueville, irresistibile: l'egualitarismo, nonostante l'avversione e la resistenza accanita che esso suscita a ogni svolta della storia, è una delle grandi molle dello sviluppo storico. L'eguaglianza intesa come eguagliamento dei diversi è un ideale permanente e perenne degli uomini viventi in società. Ogni superamento di questa o quella discriminazione rappresenta una tappa del progresso. Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di diseguaglianza tra gli uomini: la razza o più in generale l'appartenenza a un gruppo etnico o nazionale, il sesso e la classe sociale.

Dopo la tragedia del razzismo hitleriano e quasi a riscatto delle nefandezze da esso compiute, l'opinione pubblica mondiale si è ridestata al richiamo di quel grande moto verso l'eguaglianza che è il superamento dell'odio e della discriminazione razziale. Il razzismo sta diventando sempre più per chi lo esercita o soltanto lo tollera un marchio d'infamia. Nessun uditorio studentesco nel mondo potrebbe oggi ascoltare senza rivolta la lezione sull'uomo negro (‟l'uomo naturale nella sua totale barbarie e sfrenatezza") che Hegel, il grande Hegel, impartiva dalla sua cattedra di Berlino.

Come è stato più volte osservato, la rivoluzione silenziosa del nostro tempo, la prima rivoluzione non cruenta della storia, è quella che conduce alla lenta ma inesorabile attenuazione, sino alla totale eliminazione, della discriminazione tra i sessi: la parificazione delle donne agli uomini, prima nella più piccola società familiare, poi nella più grande società civile attraverso l'eguaglianza in gran parte richiesta e in parte già conquistata nei rapporti economici e politici, è uno dei segni più certi e più impressionanti della marcia della storia umana verso l'eguagliamento.

Da più di un secolo l'idea comunista agisce nella direzione della lotta contro la diseguaglianza delle classi sociali, considerata come la fonte di tutte le altre diseguaglianze, verso il fine ultimo della società senza classi, una società ‟nella quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti".

Non diversamente dalla libertà, anche l'eguaglianza appare sempre più come un τέλος. Come τέλος e insieme come ritorno all'origine, allo stato di natura dei giusnaturalisti, o più indietro ancora all'età dell'oro, a quel regno di Saturno, ‟re così giusto che sotto di lui non vi erano schiavi né proprietà privata, ma tutte le cose appartenevano a tutti in comune indivise, come se tutti gli uomini avessero un solo patrimonio

Ben più che la libertà, l'eguaglianza, proprio l'eguaglianza sostanziale, l'eguaglianza degli egualitari è il tratto comune e caratterizzante delle città ideali degli utopisti (così come una feroce e inflessibile diseguaglianza è il segno ammonitore e premonitore delle utopie a rovescio del nostro tempo), tanto di quella di Thomas More, il quale scrive che ‟finché essa [la proprietà] perdura, graverà sempre sulla parte di gran lunga maggiore e di gran lunga migliore dell'umanità il fardello angoscioso e inevitabile della povertà e delle sventure", quanto di quella di Tommaso Campanella, la cui Città del Sole è abitata da ‟filosofi" che ‟si risolsero a vivere alla filosofica in commune". Ispira tanto le visioni millenaristiche delle sette ereticali che lottano per l'avvento del Regno di Dio, che sarà il regno della fratellanza universale, quanto gli ideali sociali delle rivolte contadine, onde Thomas Münzer, che, secondo Melantone, insegnando che tutti i beni avrebbero dovuto essere in comune ‟aveva reso la folla così malvagia che non aveva più voglia di lavorare", si ricollega a Gerard Winstanley che predicava: ‟Il governo del re è il governo degli scribi e dei farisei, che non si considerano liberi se non sono padroni della terra e dei loro fratelli; ma il governo repubblicano è il governo della giustizia e della pace che non fa distinzione fra persone". Costituisce il nerbo del pensiero sociale dei socialisti utopisti, dal Codice della natura di Morelly alla società della ‛grande armonia' di Fourier. Anima, e agita e rende temibile il pensiero rivoluzionario di Babeuf: ‟Siamo tutti eguali, non è vero? Questo principio è incontestato, perché, a meno di essere colpiti da follia, non si potrebbe dire seriamente che è notte quando è giorno. Ebbene, pretendiamo anche di vivere e di morire eguali come siamo nati: vogliamo l'eguaglianza effettiva o la morte".

Dal pensiero utopico al pensiero rivoluzionario l'egualitarismo ha percorso un lungo tratto di strada: eppure la distanza tra l'aspirazione e la realtà è ancora tanto grande che, guardandosi attorno e indietro, qualsiasi persona ragionevole deve seriamente dubitare se mai possa essere interamente colmata.

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